TUTTO IL MONDO E’ QUI
Il poema pittorico di Tarcisio Merati di Vittorio Sgarbi
Perché un uomo diventa matto? Perché è matto? Perché la sua mente ritorna ossessivamente sullo stesso punto? Perché nella sua infanzia è accaduto qualcosa che ha vissuto con disagio, come una condanna. Credo che niente turbi di più del timore di essere rinchiuso, di essere costretto a rinunciare alla libertà. La minaccia del collegio, la severità dei professori agli esami, la violenza dei genitori sono aspetti e situazioni diverse di un’ansia, di un timore di sbagliare per cui irrevocabilmente scatterà la condanna. Diventar matto è essere libero, sfuggire al destino del lavoro per preservare la propria condizione creativa.
Tarcisio Merati, chiuso nell’ospedale psichiatrico di Bergamo, ha fatto esplodere il suo tumultuoso delirio interiore di immagini che hanno il colore e l’esuberanza di fiori tropicali, in un inarrestabile e quasi infinito moltiplicarsi, con improvvisi getti in alcune stagioni e lunghe pause in altre. C’è una lunghissima estate di Merati, cui succedono interminabili inverni, pause, aridità, silenzi. Ininterrotto il flusso di opere alla metà degli anni Settanta, regolare negli anni successivi durante i quali Merati è chiuso in manicomio. Quando, nel 1983, con frequenti permessi, e popi nel 1984, illimitatamente viene liberato, la sua attività artistica si interrompe, Merati smette di dipingere. Da visionario ritorna persona comune, numero.
Comincia la prigione del lavoro. La sorella può disporre della pensione di Tarcisio e, invece di esaltare, immiserisce il suo talento artistico costringendolo ad un lavoro ingrato e ripetitivo: l’assemblaggio delle ruote di modelli d’automobile, settemila al giorno al prezzo di una lira. Tarcisio rientrato nella vita normale, è a disagio, è prigioniero.
Ecco allora il manicomio diventa il luogo della libertà. E là Tarcisio desidera ritornare. Finalmente nel 1991, ottiene di essere ospitato in una casa di riposo poco lontano dal desiderato manicomio, dove può riavere lo studio abbandonato sette anni prima. E qui ricominciamo, con altro più tranquillo ritmo le visioni. Sarà un caso ma tra i motivi dominanti, anche prima dell’ingrato ritorno alla normalità, c’è il cerchio sotto forma di ruota o di sole o di occhio. E’ difficile interpretare, oltre qualche generica simbologia cui soccorrono strumenti psicoanalitici, il significato delle invenzioni di Merati. E’ probabile che con un lavoro paziente, iniziato in questa occasione da Maria Rita Parsi, insieme a un riscontro linguistico sia possibile procedere anche a uno studio delle singole opere pittoriche, con il soccorso dei commenti e delle giustificazioni dello stessa artista che ha, certamente, per ogni visione, per ogni ossessione, una ragione profonda. Mai ricerca fu meno casuale, sostenuta da un ricorso a stilemi ricorrenti. Restando a una lettura formale, il processo di aggregazione delle immagini prodotte da Merati ha qualcosa di analogo a quello dei vasi di Murrina. Intarsi policromi, di intensa luminosità in contrasti di colori puri e in un infinito variare del disegno e delle composizioni senza alcun riferimento naturalistico, ma senza alcuna volontà di astrazione. Anzi, in Merati sembra costante il riferimento al mondo vegetale. Alberi, fiori di una natura inventata. E, in ogni caso, la delimitazione delle forme, sempre molle, morbida, rimanda alla vita organica, in un continuum che è lo stesso dell’esistenza, di un organismo vivente. La pittura di Merati si muove, non e mai chiusa, delimitata, non ha mai contorni secchi, taglienti. E per questo non c’è ripetizione modulare ma l’ininterrotto prolungamento di una sola immagine, che è poi l’immagine del mondo ricreato nella mente del pittore. E la parola pittore, cosi come forse soltanto per Van Gogh, non dà ragione sufficiente della grande, epica impresa di Merati. In lui la pittura urge come la vita, e la vita stessa.
Tanto è fermo, limitato nello spazio del manicomio, tanto e libera, illimitata, inesauribile la sua pittura, che vive per lui senza regole e ostacoli. E l’occhio interiore vede ogni porzione del mondo con la stessa fantasia ed euforia cromatica con cui un bambino usa i colori, non per rappresentare, ma per accumulare golosamente dentro di se l’emozione per ciò che ha visto, la conoscenza intuitiva, diretta, del mondo.
Chi abbia seguito, in questi anni, gli importanti risultati ottenuti nella sperimentazione della creatività dei bambini non stenterà a riconoscere che Tarcisio Merati ha fissato, senza porle limiti di espansione, la propria creatività al tempo dell’infanzia. Allora, prima e fuori dai confini del lavoro, il mondo e illimitato. L’artista-bambino ne offre uno specchio.
L’immagine che ne deriva e tanto più intensa quanto meno e condizionata dalla cultura. I bambini vedono senza sapere e sanno nel momento in cui vedono. Può essere utile accostare la “sapienza” di Merati con quella dei bambini che hanno lavorato sotto la guida di Pietro Melecchi, artista sensibile che ha favorito, senza interferenze, la creatività dei suoi allievi nella Scuola Media Statale “Tito Livio” di Roma. Subito si avverte che la nozione di stile non ha nessun rapporto con le nozioni di storia e di cultura. I bambini hanno il pressoché totale distacco dalla cronaca, anche nella descrizione di un paesaggio. Ciò che vedono, e che vediamo, e fuori del tempo, dentro la natura fino ai microrganismi. In Tarcisio si aggiunge la drammatica esperienza interiore. La storia si annulla in un tempo indefinito, cedendo il passo al mito personale, difficilmente decifrabile. Nell’arco di vent’anni possiamo apprezzare, infatti, la variazione dei temi classificabili per gruppi, ma non l’evoluzione e la maturazione dello stile che, in Merati, sembra, compiutamente, esistere fino dalle origini. Negli inizi e tutto e in essi l’artista (parola inadeguata per definire l’esperienza di Merati) e già perfettamente riconoscibile, titolare di uno stile con ben definiti caratteri primari e senza ripetizioni. Difficilmente Merati duplica un’immagine, e se la itera è perché racconta una storia, come in una sequenza filmica e non certo perché si compiace di una forma compiuta, esattamente all’opposto di un artista. Per questo è difficile inserirlo in un movimento, chiuderlo in una categoria. Alcuni accostamenti possono essere indicati nell’area dell’Espressionismo, in Nolde e in Klee (tanto diversi ma non incompatibili in una visione più ampia). E quindi nulla di naïf, per l’assoluta indifferenza alla decorazione e alla gradevolezza; qualcosa di selvaggio, invece, quale si ravvisa ad esempio in Dubuffet e Mattia Moreni. E poi è difficile parlare dei malati, difficile con le armi improprie della critica e perfino con quelle invadenti e troppo umane della psicoanalisi. Difficile parlare di chi si esprime con un linguaggio tanto diverso dal nostro, eppure tanto eloquente. Difficile sintonizzare quella libertà anche fra le mura del manicomio con la nostra schiavitù senza dichiarate costrizioni.
Scrive Lorenza Trucchi, a proposito di Carlo Zinelli, altro visionario, ricoverato all’ospedale psichiatrico San Giacomo di Verona, che cominciò a dipingere solo una ventina di anni dopo il ricovero, lasciando alla sua morte un migliaio di opere: «Ho la conferma che, se nella pazzia non c’è talento, c’è invece metodo. Dietro e oltre il sipario della ragione, rimangono intatte, anche se apparentemente sovvertite, tutte le qualità dell’essere. Naturalmente, ed è forse ovvio ripeterlo, la malattia di per se non favorisce la creatività e difatti la quasi totalità dei malati di mente che dipingono ottengono risultati mediocri… Tra i più grandi ‘petits maîtres de la folie’ ricordiamo Adolf Wolfli (l864-l930), Aloise (l886-l964) e appunto Carlo… Come ha scritto Dubuffet, ‘l’arte diventa per questi pittori il corrispettivo delle feste della vita dalle quali sono esclusi’ ma oltre a queste teste essi cercano e riversano nella pittura il proprio bisogno di un drammatico antagonismo… la gioia si alterna al dolore, un dolore lacerante, davvero esistenziale che sembra mettere radici nel cervello e come un fiore velenoso cresce a dismisura disgregandolo… Klee seppe reperire e cogliere al di fuori e al di sopra delle schematizzazioni estetiche, i nessi comuni, le misteriose energie, gli oscuri legami universali che uniscono tutti gli uomini di ogni tempo: i sani e i malati, i colti e gli incolti».
Merati abita un sogno, rielabora e rivive una visione; anzi, ha la visione mentre dipinge, e quindi trascrive, come comandato da una necessità che è la sua stessa natura, che non può stabilire né orientare. Per questo appena esce, appena è “libero”, smette di dipingere. La pittura non è una vocazione e neppure una scelta, è una necessita, una condizione irrinunciabile, una grazia calata nell’esistenza anche la più malinconica che essa trasforma in euforica. Il resto è miseria, e umiliazione, lavoro, denaro, rotelline per automobili con cui giocheranno bambini infelici, futuri adulti prigionieri.
CREATIVITA’ E PATOLOGIA
di Mauro Ceruti
Uno degli aspetti più interessanti di tutti i processi creativi è una sorta di repentino effetto soglia che trasforma una situazione in divenire, ove si intersecano molteplici possibilità e contingenze, in un risultato (oggetto, operazione, idea) acquisto, dotato di contorni e di relazioni ben definite e che tende ad imporsi al soggetto per i suoi caratteri di individualità e autonomia. Ciò appare chiaramente nei risultati dei processi creativi sviluppati da scienziati o da artisti. Dinanzi al carattere compiuto delle loro opere, essi tendono spesso a considerare i loro risultati come imposti dall’esterno e quasi estranei, il che ha reso sovente plausibili interpretazioni dell’atto creativo fondate su epistemologie di tipo platonico o anche sull’idea dell’intuizione considerata come atto puntuale, indefinibile e primario.
Questo effetto soglia caratterizza anche l’evoluzione psicogenetica standard, cioè si manifesta ogniqualvolta un soggetto, a uno stadio del suo sviluppo, si mostra in grado di affrontare con successo nuovi problemi o nuove situazioni dapprima debordanti dal suo orizzonte cognitivo. Uno dei tratti essenziali che caratterizzano l’acquisizione da parte del soggetto in sviluppo (e del bambino in particolare) di una nuova capacità operatoria, è proprio un brusco riorientamento gestaltico definibile come “insight”, che porta il soggetto a considerare evidente e necessario ciò che prima si poneva come limite di un processo per tentativi ed errori.
E’ il caso, ad esempio, che porta il soggetto da una situazione in cui ha bisogno di verificare empiricamente determinate proprietà matematiche o fisiche (transitività, conservazione delle quantità, ecc.) ad una ove è in grado di dedurle a priori, una volta sia stato informato degli elementi del contesto: e quest’ultima è inaugurata da un’affermazione di evidenza da parte del soggetto, che rimuove dalla sua coscienza tutta la storia di tentativi ed errori nella quale era immerso fino ad un istante prima. Dinanzi a tali fenomeni la psicologia contemporanea mostra come inadeguata e parziale l’attitudine a rimanere legati ai dati esclusivi presenti alla coscienza del soggetto. Sullo sfondo sta il radicale mutamento epistemologico attuatosi attorno all’idea di “mentre”, che ha perso ogni carattere sostanzialistico per divenire l’insieme dei processi sistemici e ricorsivi che sostituiscono la nozione tradizionale di “fatto” psichico isolabile.
Lo studio della patologia, mettendo in questione la natura dei meccanismi generali che la rendono possibile, apre la strada alla comprensione dei diversi modi e degli sbocchi alternativi (non necessariamente patologici) del funzionamento di tali meccanismi. Da questo punto di vista, la creatività appare in molti casi come lo sbocco, e la risoluzione su di un piano diverso, di una situazione conflittuale che, presa in se stessa, può condurre ad esiti bloccanti e spesso patogeni.
Una nozione in particolare che può risultare di sorprendente fecondità quanto alla messa in relazione dei processi mentali creativi con quelli patologici è la nozione di “doppio vincolo” (double bind) elaborata da Gregory Bateson come cardine di un nuovo approccio teorico all’eziologia e alla natura della schizofrenia. L’ipotesi del doppio vincolo sottolinea come la schizofrenia debba venir considerata quale insieme dei risultati comportamentali prodotti da determinate sequenze di interazioni interpersonali, e non già come un disturbo essenziale intrapsichico. Il comportamento schizofrenico dipende in maniera essenziale da un contesto caratterizzato da particolari strutture di interazione e dai vincoli di ritorno che esse impongono al soggetto.
In modo del tutto generale, colui che è sottoposto ad una condizione di doppio vincolo si trova in presenza di due giunzioni – formulate da uno o più soggetti con i quali si trova abitualmente in una relazione intensa – delle quali è richiesto il contemporaneo soddisfacimento, ma che tuttavia, prese insieme, formano un’asserzione paradossale ed indecidibile. Il carattere specifico di tale situazione sta nel fatto che le due ingiunzioni non si pongono sul medesimo piano, per cui è fuori discussione la possibilità di una scelta esplicita: una è infatti primaria, ed è comunicata direttamente, mentre la seconda, spesso implicita e sottintesa, costituisce una sorta di commento metacomunicativo sulla prima (essendo con quella nello stesso tempo in conflitto). Esiste poi una terza ingiunzione che chiude il contesto, impedendo all’individuo soggetto al doppio vincolo di sfuggire al conflitto, che pertanto viene sempre più approfondito e in taluni casi sempre più “analizzato” dal soggetto in questione: egli opera tenendo sempre entrambe le asserzioni e cerca così di comporre, sul piano di razionalizzazioni personali, contraddizioni che in quanto tali non sono superabili. Mantenendo chiuso il contesto di partenza, la situazione di doppio vincolo è irresolubile. Ciò che permette di dissolverla è la presenza di un metacontesto in cui risulti possibile la formulazione di asserzioni metacognitive sulla natura delle ingiunzioni di base e sul loro rapporto: il soggetto può allora rifiutare la necessità delle scelte, ristrutturando il proprio sistema di riferimento. Più specificamente, il caso è risolto dall’intervento operante di un metacontesto, prima ancora che dalla formulazione (in esso e grazie ad esso) di metaasserzioni. Ciò che conta soprattutto è la presenza di un sistema di indici che organizzino direttamente i contenuti, non tanto la presa di coscienza completa di strutture o contesti più generali.
Il fatto che i paradossi caratteristici del comportamento schizofrenico possano dissolversi soltanto inserendo lo specifico sistema interattivo in un metacontesto è relativo ad un modello della mente sistemico, imperniato su di una serie di livelli ognuno dei quali può, a seconda delle circostanze, esercitare la funzione di metasistema o al contrario di sottosistema. Il metacontesto è il luogo adeguato ove vengono posti tutti i problemi relativi alla scelta fra diversi comportamenti o diverse strategie che nel contesto di partenza venivano semplicemente esibiti: è ad esso che si deve ricorrere ogniqualvolta si producono perturbazioni e deviazioni dei comportamenti non immediatamente compensabili. Per modellizzare le proprietà di una tale gerarchia, Bateson si è ispirato alla nozione russelliana di “tipo logico”.
Come è noto Russell elaborò una tale nozione allo scopo principale di far fronte a paradossi che minacciavano l’elaborazione dei sistemi formali. Questi venivano giudicati dovuti essenzialmente a un’indebita proiezione su di un medesimo piano di ordini di discorso in realtà stratificati.
Il ricorso ai tipi logici serviva quindi per ristabilire una tale stratificazione, e quindi la discontinuità essenziale fra una classe e i suoi membri: una classe non può essere membro di se stessa, e il termine che la indica si situa su un livello di astrazione maggiore di quelli che indicano i singoli elementi.
Nella concettualizzazione psicologica contemporanea la funzione dei tipi logici e svolta proprio dai contesti e dai metacontesti relativi, il riferimento ai quali si e rivelato indispensabile per lo studio dei paradossi pragmatici che interessano la comunicazione e il comportamento. Tuttavia il passaggio dal piano logico (sintattico e semantico) a quello pragmatico comporta radicali differenziazioni nel funzionamento dello stesso modello: mentre i paradossi formali possono essere sempre dissolti tramite un riferimento ai tipi logici d’ordine superiore. che riesce altresì a eliminare o a modificare profondamente i sistemi (assiomi o teoremi) nel cui ambito essi erano stati formulati. i paradossi pragmatici permangono in generale tratto costante della comunicazione umana, normale non meno che patologica. L’equilibrio e l’efficacia della comunicazione normale rispetto a quella patologica non dipende allora dall’eliminazione di paradossi e di violazioni transcontestuali, quanto alla presenza di indici che permettono di relativizzarli a un determinato contesto: in tutte le situazioni di gioco, di fantasia, di umorismo, le violazioni riescono perché il soggetto sa dove collocarle. In questi casi il metacontesto è presente nella comunicazione sotto forma di asserzioni operanti, inconsce o comunque interne ai contenuti (non rese cioè espliciti oggetti di discorso o di presa di coscienza), che garantiscono la possibilità di una dinamica di violazioni transcontestuali che presa in se stessa risulterebbe indecidibile. Il comportamento schizofrenico e invece contraddistinto proprio dall’assenza o comunque dalla mancata efficacia di tali asserzioni, il che rende le violazioni veri e propri pnradossi pragmatici, caratterizzati da una contraddizione fra la loro indecidibilità da un lato e la loro ineuitabilità dall’altro. In tal caso. si pone l’esigenza della costruzione vera e propria in un metacontesto situato a un tipo logico superiore, e soprattutto il problema di mettere questo in grado di esercitare la sua funzione fondamentale, quella di dissolvere il carattere bloccante proprio del doppio vincolo per inserire il sistema psichico del soggetto in un nuovo insieme di possibilità e alternative.
Ciò che rende un tale modello assai rilevante da un punto di vista epistemologico è il fatto che esso non si limita a descrivere taluni processi delimitabili e classificabili come patologici, ma si riferisce anche a situazioni ricorrenti per tutti i soggetti in vari domini cognitivi. Se si e detto che rispetto al comportamento attuale i livelli d’astrazione superiore si pongono in genere come garanzie virtuali del corretto funzionamento del sistema, essi devono venire raggiunti ed utilizzati ogniqualvolta tale funzionamento e, già per qualche ragione, impedito. In altre parole: al soggetto si dà spesso un tipo di problemi che richiede non una semplice scelta nell’insieme dato di possibili alternative a sua disposizione, bensì un mutamento dell’insieme stesso entro il quale effettuare tali scelte, il che può avvenire soltanto tramite la costituzione di un nuovo universo di discorso.
Il fatto che spesso la soluzione creativa di un problema si manifesti in maniera improvvisa, facendo parlare di “insight”, non e un indizio di una presunta preesistenza di tale soluzione, ma dipende proprio dal rapporto fra il processo creativo da una parte e il risultato dall’altra. Alla base di alcuni processi creativi si possono identificare dunque vere e proprie sindromi transcontestuali.
Un famoso esperimento sulle focene è particolarmente significativo. In situazioni di tipo pavloviano, tali animali sono facilmente addestrabili alla produzione ripetuta di comportamenti standard. Essi vengono ad esempio addestrati ad apprendere il fischio dell’istruttore come rinforzo secondario: tutte le volte che alzeranno la testa dall’acqua, si aspetteranno di sentire il fischio e quindi di ricevere il cibo, ecc. Si stabilisce in tal modo una struttura contestuale, con un insieme di regole di connessione fra le informazioni, al cui interno la focena si colloca in maniera adeguata. Il problema è di vedere se e come la focena possa affrontare non più un singolo episodio comportamentale, bensì la classe di tali episodi: l’esperienza mostra che ciò può avvenire, ma soltanto tramite una rottura della struttura contestuale di partenza. Quello che si richiede alla focena, all’interno della sequenza abituale “comportamento-fischio-cibo”, e ora non già la ripetizione del comportamento standard, bensì la produzione di un comportamento ogni volta nuovo. La focena quindi cadrà senz’altro in errore e all’inizio produrrà moduli comportamentali nuovi soltanto in maniera puramente casuale. Se l’istruttore rinforzerà tali comportamenti, la focena si troverà automaticamente inserita in una tipica situazione di doppio vincolo, nella quale la sequenza fischio-cibo si pone come un’ingiunzione atta alla ripetizione del comportamento standard e contemporaneamente, nel metacontesto, richiede una violazione delle regole del contesto (per essere premiata, la focena deve esibire un comportamento nuovo).
Si osserva allora un progressivo approfondimento della situazione di doppio vincolo che porta l’animale a un elevato grado di stress (tanto che lo sperimentatore, se vuole continuare l’esperimento. e costretto a concedere alla focena rinforzi cui non avrebbe diritto). In seguito si produce una sorta di effetto soglia: dopo aver vissuto un momento di stress elevatissimo, la focena esibisce una serie continua di otto moduli comportamentali nuovi, alcuni dei quali non erano mai stati osservati in animali della stessa specie. La focena mostra con ciò di essere in grado di muoversi a livello metacontestuale, realizzando una sorta di deuteroapprendimento, apprendimento ad apprendere, capacità di inserire il proprio contesto iniziale in un insieme di contesti che riorientano le proprie scelte.
Il risultato della focena si presenta quindi come un vero e proprio atto creativo, con caratteristiche proprie di non deducibilità da un qualsivoglia insieme precedente (sottolinea soprattutto l’assenza di determinati comportamenti nei moduli standard della specie) e di subitaneità, riferibili all’esperienza dell’insight sottolineata in precedenza. Si può ragionevolmente ipotizzare che anche nell’ambito del comportamento umano molti processi creativi seguano dinamiche analoghe, caratterizzate dapprima dall’approfondimento delle contraddizioni del contesto cui si aderisce e quindi da un brusco riorientamento che ha come tramite essenziale un contesto di ordine superiore. Con ciò non si vuole cercare di definire una “logica della creatività”, ma di mostrare come una concezione sistemica ed ecologica dei processi psicologici possa consentire di mettere in evidenza e di approfondire aspetti del problema della creatività in genere fraintesi da approcci di tipo coscienzialista oppure troppo rigidamente causalisti.
Ciò che ha sempre creato difficoltà a chi ha studiato i processi creativi e stata la differenza di “status” fra un vasto ambito di attività per tentativi ed errori e il cosiddetto atto creativo vero e proprio, che sembra imporre una cornice di necessità a ciò che prima era puramente contingente, e che soprattutto fissa in strutture compiute e atemporali elementi sviluppatisi in una genesi temporale. Spesso si e ricercata una soluzione tentando di negare la pertinenza dei rapporti fra questi due momenti e ipotizzando una genesi razionale, una astratta deducibilità delle novità da elementi già dati in partenza che fosse in grado di sopprimere la storia reale di tentativi ed errori. Altrimenti, la via opposta era quella di cercare di trarre dai singoli tentativi ed errori un rapporto diretto di tipo determinista con il risultato finale: ma una tale prospettiva si scontra evidentemente con il carattere individuale e autonomo di ogni itinerario creativo, che non permette di prevedere quando l’effetto soglia si verificherà, e soprattutto con la sua collocazione in condizioni fortemente connotate dal contingente e dal caso.
L’approccio sistemico ai problemi della psicologia, incarnazione di una prospettiva ecologica più generale, si e rifiutato di considerare come definita una tale alternativa sommaria. Esso ha mostrato da un lato come i rapporti di determinazione riscontrabili fra gli stati successivi dei sistemi psichici non si riferiscano a singole catene causali, ma siano definibili soltanto rispetto agli aspetti globali del sistema stesso. D’altra parte, e risultato anche chiaro come i metacontesti prodotti essenzialmente del processo creativo non esistano mai prima del processo stesso, anche se effettuano su di esso una funzione in certo senso di innesco. Ciò significa che al soggetto alle prese con un problema transcontestuale sono date in partenza soltanto l’urgenza di apertura del contesto immanente ai dati del problema, nonché alcune direzioni possibili di sviluppo: senz’altro molto più di nulla, dato che tali possibilità trovano le loro radici nell’organizzazione dei sistemi psichici e quasi certamente di quelli neurologici. Ma esiste allora un vasto spazio vuoto che sta al soggetto di colmare, ed esso non può essere che regno della storia e della contingenza. Se esistono ragioni profonde perché questo spazio sia colmato, soltanto il cammino specifico di un soggetto potrà dirci quando e come.
Gli argomenti qui trattati sono più ampiamente approfonditi dall’Autore nel volume: Mauro Ceruti, La danza che crea. Feltrinelli.
DIPINGO QUINDI ESISTO – INTRODUZIONE
di Maria Rita Parsi
Tarcisio Merati è definito clinicamente un ritardato mentale, uno schizofrenico delirante, un mitomane.
Ed, invero, egli è preda di un mito, il mito del viaggiatore (come Ulisse, come Colombo) che, per tracce, solca il mare degli umani simboli. Il parlare di Tarcisio è oniroide, un perenne flusso di immagini simboliche, di frammenti di storie, di verbi per azioni, che sembrano slegate tra loro ma che, invece, costituiscono un solidissimo tessuto, allorquando se ne individua il codice interpretativo, il linguaggio macchina, la chiave di lettura, l’output.
Tarcisio Merati ha trascorso 25 anni nel manicomio cronicario, con una pausa di 7 anni, passati in casa della sorella, e durante i quali egli non ha disegnato. Attualmente Merati vive nella struttura dipartimentale di Bergamo, ed e tornato a dipingere. Tarcisio oggi è (cioè dipinge: dipingo dunque esisto) un pappagallo di 7 colori, un pappagallo grande, grandissimo, con la coda allargata come un pavone sospeso in cielo dal ritmo stesso del suo volo, oppure con le “zampe” artiglianti un ramo, massiccio e tornito come un pesce enorme. Forse un pesce che il pappagallo-pavone-Tarcisio ha pescato, per un’ennesima storia, impossibile da vivere con gli altri, arche-ricordo-memoria, dal mare dell’inconscio. A 57 anni egli, infatti, non è più a terra, non “scava” più le qualità delle erbe, non solca più il mare; ma è libero, in aria, senza altro contesto che il cielo. senza altro appoggio che il ramo-pesce tagliato come un tronco massiccio, stroncato, castrato. Ed anche la catena che il pappagallo Tarcisio porta sempre al collo (fatta di 6/7 anelli) non ha l’ultimo anello spezzato. Questo significa forse che la catena è per intero: nel liberarsi non ha dovuto spezzarla. L’uomo liberato. Quella catena, infatti, spiega Tarcisio, sta a dimostrare che l’uccello è libero, ma è di qualcuno, è di quelli dell’ospedale che devono nutrirlo, che gli operatori stessi del manicomio non possono abbandonarlo (essi lo rispettano, lo assistono, valutano i suoi prodotti ed egli ha ancora bisogno di loro per essere alimentato e protetto).
Il manicomio prima è l’ospedale, oggi, cioè la rinnovata struttura, che ospita a Bergamo i malati di mente in “grazia basagliana”, sono i luoghi nei quali per 25 anni Tarcisio ha vissuto e ha dipinto. Quando gli viene chiesto perché è stato rinchiuso in manicomio Tarcisio spiega che è stato per consentirgli di scrivere e di dipingere. Questo è il motivo. Ed è vero. Per uscire dalla condizione della sua famiglia, condizione triste, mediocre, di passività, di inconsapevole profonda inferiorità, Tarcisio, che nasce con l’anima, non ha altra soluzione che impazzire. Per vivere la sua vita ha bisogno di un altro codice: ha bisogno di disegnare, di colorare, di inventare, di delirare per parlare, “di immaginare di scrivere” per raccontare. Cosi “sceglie” il manicomio, come un giovane novizio va in convento. Per seguire il Dio che ha dentro di se. E la storia grafico-pittorica di Tarcisio inizia là. E’ in manicomio che Tarcisio si fa santo, attraverso i colori e i simboli.
DIPINGO QUINDI ESISTO – Identikit di Tarcisio Merati
di Maria Rita Parsi
Tarcisio Merati nasce a Bonate Sopra, in provincia di Bergamo, il 27 maggio del 1934, da una famiglia di artigiani. La condizione economica in cui Merati cresce è indubbiamente disagiata. Ma Tarcisio non l’accetta, non condivide lo stile di vita della sua famiglia: manifestazioni di malessere si riscontrano, probabilmente, già nell’adolescenza. Prima di essere ricoverato Tarcisio tenta la fortuna andando in Svizzera alla ricerca di lavoro. Ma anche lì finisce col fare il muratore, la stessa attività che svolgeva a Bergamo; quindi, dopo qualche tempo, torna a casa. A 25 anni, però, la situazione diventa esplosiva: la miseria economica e culturale, il secondo matrimonio della madre, le liti in famiglia, un lavoro non amato, pesano sulla mente e sull’animo vulnerabile di Tarcisio in maniera insostenibile. Così Tarcisio “decide” di difendersi da queste situazioni. Se ne “distacca”, tanto è vero che, anche in forme aggressive, va ovunque presentando un’immagine di se molto diversa.
Già qualche mese prima del ricovero, infatti, raccontano i parenti, Tarcisio non si riconosce più quale semplice muratore: crede di essere ora un grande romanziere, ora un musicista, ora un uomo politico importante. Crede di avere una fidanzata, ma la ragazza da lui scelta neanche lo conosce. Comincia il suo delirio di onnipotenza. Tarcisio diventa un mitomane. Nel suo delirio sceglie di passare a una condizione di agiatezza, sceglie un nuovo ruolo sociale, che poi mantiene. anche quando entra in manicomio. Si identifica con un mondo, con una cultura, con un bene molto diversi dai suoi e, alla fine, anche quando inizia a disegnare, l’esigenza, l’obiettivo, il motivo primo è quello di creare una realtà diversa da quella in cui è vissuto e vive, di plasmarla, di ripartorire se stesso in modo nuovo, diverso. In una “forma” che gli appartenga.
II 7 agosto del 1959 Tarcisio viene ammesso, per la prima volta, all’ospedale neuropsichiatrico provinciale di Bergamo con la diagnosi: “Sindrome dissociativa” (schizofrenia) e, più tardi. “Psicosi in ritardo mentale”. Viene rinchiuso in manicomio ma. in verità, questa e per lui una fuga: l’inizio di una libertà conquistata attraverso la scissione e il delirio. Due mesi dopo il ricovero, il 7 agosto del ’59, la madre assicura che “assisterà” a domicilio il figlio. E Tarcisio viene dimesso in “periodo di osservazione”. Ma due anni dopo c’è una nuova richiesta di ammissione. E il 18 maggio 1961. Tarcisio sta per compiere i suoi 27 anni. E il primo compleanno in manicomio. Ne festeggerà, da “ricoverato”. altri 16, e, da “volontario” altri 8. Tarcisio ritorna in ospedale perché e ancora fortemente dissociato e mostra atteggiamenti minacciosi nei riguardi di ragazze. Non ha abbandonato la sua mitomania, ma ha scoperto un nuovo ruolo: questa volta si presenta come un maestro elementare in attesa di sistemazione. Qualche giorno dopo, il 22 maggio, la cartella clinica di Tarcisio, riporta la nota di una prima “cura”: Elettroshock. A lato si legge: “Fisicamente bene”. Il mese dopo appare tranquillo, un po’ euforico, meno dissociato. Il 16 giugno una nuova “cura”: Insulinoterapia, per procurare un altro shock, questa volta ipoglicemico. Tarcisio trae scarsi vantaggi da questa “terapia”. E’ tranquillo, si comporta “bene”, è pulito e ordinato, ma non si riesce ad ottenere da lui una frase che abbia un senso compiuto. Egli tenta fughe per tornare a casa e al suo lavoro. Il 10 novembre del ’61 avviene forse la prima di queste fughe: Tarcisio riesce a eludere la sorveglianza e a scavalcare la rete del cortile dell’ospedale. Il mattino seguente è “riportato… dal suo ex-padrone dal quale, nella notte, si è recato a chiedere lavoro” (dalla cartella clinica di Tarcisio Merati). Seguiranno altre fughe: alcune si concluderanno all’interno dell’ospedale, magari col furto di una bottiglia di vino altre, invece, vedranno Tarcisio “lontano”, per le vie di Brescia ad esempio.
Negli anni che seguono, dal ’73 all’84, il profilo registrato dai medici resta sostanzialmente invariato. Nessuna nota particolare, nessun cambiamento rilevante, nessun miglioramento ne peggioramento. Ma noi sappiamo che qualcosa di importante è entrato a far parte della sua vita. Il 23 luglio ’83 si legge: “Discretamente pulito, anche in reparto e all’atelier, disegna quadri piuttosto astratti”.
Già dal 1975 Tarcisio aveva scoperto la pittura, anche se nella cartella clinica questo non appare, e dal 1975 al 1983 la produzione artistica è quantitativamente enorme. Egli frequenta l’atelier dalla mattina alla sera, non ha altra attività che la pittura. Il suo mondo si popola di immagini, di simboli, di colori. A volte questi elementi si presentano in forma unica, in un unico dipinto, altre volte si combinano ripetutamente per una serie di disegni, da un minimo di due (Tarcisio replica spesso lo stesso soggetto per due volte) a un massimo di 34 repliche, come nel caso di quella che Merati titola “La macchinetta”. Tarcisio dipinge sia il mondo che conosce: l’ospedale, i reparti, i fiorellini, la macchinetta che gli ha regalato un “compagno di viaggio”; sia il mondo che non conosce: il mare, la Corsica, le isolette e le penisolotte, i caminetti, i mezzi-caminetti; e personaggi immaginari: come “cerchietto-basetto col colletto” (fig. 1).
Il flusso produttivo di Tarcisio muta col tempo: il ’75 e il ’76 sono indubbiamente gli anni che lo vedono maggiormente attivo, mentre nel 1983 la sua produzione artistica si interrompe per circa 7 anni. Cosa accade nella vita di Tarcisio, cosa gli fa perdere l’interesse per la pittura? Il 24 dicembre del 1976 la sorella porta con se il fratello per due giorni, per fargli trascorrere il Natale in famiglia. Tarcisio si comporta “bene”. Questo avvenimento, che sembrerebbe preannunciare un cambiamento grosso resta però un episodio isolato per altri 7 anni. Nel ’77, il ricovero coatto viene trasformato in ricovero volontario, perché Tarcisio è notevolmente migliorato sul piano psichiatrico e, da tempo, si mostra stabilmente tranquillo.
Nel luglio del 1983 la sorella chiede di nuovo di poterlo portare con se e non soltanto per qualche giorno. Prospetta un vero e proprio trasferimento, però non a casa sua, perché dice: “Ho una figlia di 12 anni”. Tarcisio sembra indifferente al trasferimento, si preoccupa solo di poter mantenere la sua attività di disegno e pittura. I primi permessi sono successivi a colloqui di controllo durante i quali traspare il desiderio di Tarcisio di restare in ospedale perché “libero dalle dittature” che subisce a casa della sorella. E 1’agosto del 1983.
Nel novembre dello stesso anno la sorella si ripresenta chiedendo che il fratello venga dimesso per andare a vivere a casa con lei. Vengono accordati nuovi permessi, che diventano sempre più frequenti, fino a quando nell’aprile dell’84 Tarcisio viene definitivamente dimesso. Ha quasi 50 anni. Per sette anni il Merati vivrà in casa della sorella, ma le difficoltà che questa convivenza comporta e le continue richieste di Tarcisio di tornare in ospedale fanno sì che la sorella acconsenta, nel ’91, ad un suo nuovo allontanamento. L’assistente sociale propone la soluzione al problema. Tarcisio si trasferisce questa volta in una casa di riposo a Bergamo, vicina al vecchio ospedale psichiatrico, dove c’è ancora il vecchio atelier, che egli riprende a frequentare ogni sera. I ritmi produttivi con cui oggi Tarcisio Merati dipinge sono molto diversi: più lenti, forse anche più stanchi.
DIPINGO QUINDI ESISTO – Lettura analitica dell’opera di Tarcisio
di Maria Rita Parsi
La schizofrenia di Tarcisio nasce come espressione dell’esigenza di ricomporsi nella mente e di rinascere in forma nuova, dimenticando l’antico dolore di non essere stato accettato.
Il percorso pittorico sottolinea e accompagna questo processo mentale. Attraverso i suoi dipinti, infatti, Tarcisio si è curato, si è rigenerato, si è ripartorito, si è liberato da antichi fantasmi e ha potuto trovare e mantenere un legame con “quelli dell’ospedale”. All’interno dei suoi dipinti pos- siamo rintracciare un unico messaggio: il bisogno di comunicare un percorso interno, di manifestare l’evoluzione di una vita che si mostra all’esterno soltanto attraverso la pittura. Questa dimensione espressiva permette a Tarcisio di evadere da una situazione di emarginazione, tentando di capovolgerne i termini. Merati è ritenuto un ritardato mentale, ma il suo vero deficit sta nell’incapacità di sapersi integrare, di sapersi inserire in un ambiente miserrimo, limitato nelle aspettative, nella cultura, nelle possibilità. Nonostante questo, osservando l’opera di Tarcisio si è spinti, piuttosto, a pensare a una sensibilità di eccezionale valore, a un’intelligenza diversa, evidentemente di tipo creativo, intuitivo, fantastico ma certamente non inferiore. Il ritardo mentale, di cui parla la diagnosi, appare in relazione a questa assoluta incapacità di stabilire rapporti sociali chiari, stabili, autentici, ma la chiusura in se stessi non può essere sufficiente a definire un deficit intellettivo. Tarcisio, infatti, ha elaborato un codice, un linguaggio, un intero ed articolato mondo mentale.
Se, utilizzando il nostro codice ed il nostro linguaggio, volessimo capire il significato di questa complessa elaborazione e tentassimo di appropriarci degli elementi che la compongono certamente anche noi potremmo definirci “ritardati mentali”. Riportiamo di seguito un esempio del vocabolario odierno di Tarcisio Merati, per mettere in evidenza le caratteristiche e l’unicita di questo linguaggio:
per diviso erbetta fiori uccellino caminetti scalette fiori ruota tiruli travi cristiani chiavole penisole Corsica cactus pignoletti camini boretto tambiettino ocraina le tre caravelle invisibile stalline casina boccette fondamenti antichi mezzo cerchiett oerbetta botticella frumento tignoletti caminetti isole penisolette tatani tetti cocò bottolino bottola
Questi termini, che appaiono ripetutamente nei discorsi di Tarcisio, ci permettono di comprendere che il suo pensiero si articola, si compone, si manifesta attraverso espressioni ricche di significati simbolici. I simboli, che sono il cuore arcaico della nostra mente, custodiscono e rivelano i contenuti dell’inconscio, ci “spiegano” le origini più nascoste dei nostri pensieri, dei nostri sogni, delle nostre azioni.
Ancor più vero, unico, eccezionale è il linguaggio grafico con cui Tarcisio si esprime. In esso i contenuti simbolici appaiono chiari, evidenti, indispensabili. Sono questi simboli, espressi nelle forme e nei colori, che rendono ricca, emozionante, intensa, universale l’opera di Tarcisio. Molti dei dipinti di Tarcisio, soprattutto quelli che risalgono agli anni ’75-’76, ritraggono organi interni del corpo umano: cuore, intestini, cervello, utero, pene con canale uretrale in evidenza, in particolare elementi che riguardano l’area genitale (figure a lato). Tarcisio “sente” questi organi minacciosi e persecutori anche quando li disegna con colori vivacissimi che ricordano la cromia di Klimt, o di Kandinskij.
In questa fase Tarcisio sperimenta una rielaborazione del tema della nascita, una nascita sicuramente difficile: affiora la fantasia di un tentato aborto, di una madre terribile, che trattiene il feto nel tentativo di distruggerlo, frantumarlo, eliminarlo da sé; oppure si adombra la suggestione di un ragno mostruoso, che lo cattura per divorarlo.
E così appare in veste di farfalla, una farfalla “crocifissa”, catturata (che ricorda il rembrandtiano “Cinghiale squartato”). E’ la tragica conclusione di un volo, la fine della libertà di vivere, di immaginare, di pensare. E’ il tema del sacrificio, tipico della schizofrenia: una crocifissione utilizzata per segnalare al mondo il proprio disagio (figura a lato).
Al tema della nascita, della terra, del materno, della nutrizione è legato “Il vaso di margheritine” (figura a lato). Tarcisio spiega: «Questo vaso ha i quattro fiorellini, questo fiore in mezzo… l’ho disegnato dentro al vaso per nasconderlo dalle “mensi”. Non posso far morire tutti i reparti, bisogna dargli ancora da mangiare!».
Gli elementi che possiamo cogliere in questa rappresentazione sono: il nascondersi nel vaso, quindi rimettersi in una posizione uterina, regressiva; i quattro fiori, più uno, cioè la famiglia: padre, madre, sorella, fratello e lui; l’ospedale con i suoi reparti.
Appare chiaro il sovrapporsi ed il confondersi, nella mente di Tarcisio, della storia familiare, dell’esperienza vissuta in manicomio, della paura di nascere e di essere divorato. Tarcisio “ricorda” che bisognava nutrire la famiglia, portare i soldi a casa. Ma lui è stanco “di coltivare le quattro erbette”, adesso sente solo il bisogno di rinascere, adesso disegna solo “le quattro fiorellini”. Vorrebbe aggredire “i reparti” che lo trattengono, che gli impediscono di essere libero (cosi come facevano i familiari, in particolare la madre), ma non può farlo perché è l’ospedale che gli dà nutrimento e lo contiene. In seguito (1976-1977) appare la serie di dipinti che Tarcisio titola “Cactus”, come quelli qui riportati: “Ovulo del cactus con la chiavicola” (prima figura in alto), “Cactus e Corsica” (seconda figura). Sono l’esempio palese del tentativo di ricostruzione: una fecondazione immaginaria che permette all’Autore di dare vita all’embrione di se stesso, di essere madre di un nuovo feto che, attraverso l’arte pittorica, ricomporrà in se tutti i pezzi, i brandelli del Tarcisio aggredito. L’opera grafica patirà, subirà, si trasformerà. E’ una sorta di “ricomposizione-esplorazione”, che ci permette di capire come, attraverso i dipinti, Tarcisio non rielabora unicamente l’esperienza vissuta, ma ipotizza e rappresenta, inoltre, “possibili” risoluzioni al disagio e al dolore di esistere. Da queste forme articolate internamente, ma nettamente perimetrate, da questi dipinti realizzati con uno sfondo che possiede ed ingloba l’immagine, non permettendole di emergere e di stagliarsi, da queste forme “uniche”, Tarcisio passa a rappresentare un mondo frammentato, diversificato e complesso (terza e quarta figura), in disegni che mostrano sia l’elemento dissociativo, la frammentazione di un “tutto” che appare rotto, spezzettato, proposto in mille modi (meccanismo dicotomico schizofrenico) sia il tentativo di organizzare e sistematizzare la frammentazione. Questo è ancor più vero se si osserva la successiva evoluzione, quando i diversi pezzi si vanno ricomponendo (quinta figura).
Lentamente, dopo la pausa forzata a casa della sorella, Tarcisio si scopre “Uccello”, forma unica e nuova di una lenta e faticosa evoluzione. Partendo dal “tutto inglobato”, che contiene dentro sé ogni elemento, ma che è meccanico, freddo, “robottiano”, si passa ad un’immagine che lentamente si anima e prende vita. La forma di un uccello, prima poggiato su di un ramo, che ancora sottolinea il bisogno di un sostegno, di aggrapparsi e di aggredire, poi libero in volo, con le zampe ancora tese, pronto a planare sulla terra, se fosse necessario. I primi dipinti di questa serie mettono in evidenza le problematiche con la “possessione” materna.
All’interno appaiono tutta una serie di segni e simboli (mandala, croci), ma l’elemento più caratteristico di queste opere sono le ruote che in seguito si trasformano nel ramo e nelle zampe dell’uccello. Inizialmente le ruote sono quattro e questo numero ci permette di scoprire una dinamica interna molto importante. Parlando dell’archetipo del “Carro”, Jung dice che quando un sognatore sogna un carro lo “vede” con due ruote. Queste rappresentano ciò che il sognatore ricorda del sogno: una sorta di visione prospettica della realtà. Quando appaiono quattro ruote significa che anche la parte rimossa straripa e fuoriesce, la difesa dell’Io non la contiene più, non taglia più la realtà in due parti. Se l’inconscio si manifesta in tutta la sua totalità si verifica quel fenomeno chiamato “Psicosi”. Un simbolo del manifestarsi di questo mutamento e la rappresentazione del “Carro” nella sua totalità, che è espressa dalla presenza dei quattro elementi. Nella struttura dell’inconscio infatti il “Quattro” rappresenta l’Infinito (Terra, Aria, Acqua e Fuoco). Questo ci permette di affermare che Tarcisio in questa fase è posseduto dall’Inconscio, il suo Io e stato detronizzato. Una prima evoluzione si verifica proprio quando cambia la base del carro: le ruote diventano tre e, in alto a sinistra, appare un nuovo simbolo nella veste di un uccello. Una delle ruote, infatti, sembra essere diventata una struttura autonoma, che si stacca dal nucleo centrale, dalla possessione materna, dal dominio dell’inconscio.
Il “movimento” di questa parte dell’immagine induce a pensare che Tarcisio abbia messo in atto un processo di sublimazione della simbiosi con la madre. L’odierna conclusione del percorso interno dell’artista è rappresentata dall'”Avis” che sostituisce il “Carro”: una parte libera, che prende consistenza, si delinea, diventa protagonista. Nel vissuto psichico di Tarcisio questo rappresenta un distacco dalla madre, ma l’uccello è anche l’elemento aereo, delicato, che non avendo contatto con la terra (la Madre), non avendo “i piedi per terra”, non ha la possibilità di sperimentare la realtà. Oggi Tarcisio si trova quindi ancora lontano dal poter contattare gli altri, il mondo, in modo razionale e consapevole, ma ha sicuramente intrapreso, grazie alla sua arte, una “soggettivizzazione”, un’alternativa al delirio ed alla possessione dell’inconscio.